domenica 24 maggio 2015

“L’ultimo destino” di Angelino Riggio



Titolo: L’ultimo destino
Autore: Angelino Riggio
Editore: Pintore, 2014







C’era un tempo in cui esistevano i cavalieri. Ma alla fine del Quattrocento, quando inizia L’ultimo destino, il drago da sconfiggere si è ridotto ad un geco: irritante, eppure molto indifeso. E i cavalieri non sono più prestanti guerrieri, ma due bambini, due ragazzi catapultati troppo presto nella Storia con la “s” maiuscola, muniti solo della propria voglia di sopravvivenza. I due giovani sono due fratelli, o meglio due fratellastri, accomunati dallo stesso padre, dalla stessa ‘facciapulita’ e dallo stesso nome, anche se declinato in due lingue differenti, come pure diversa e reciprocamente distante rischia di rimanere la loro vita. Juan nato in Castiglia, persa la madre, troverà in un copista e tipografo una seconda famiglia e un’educazione capace di aprirgli le porte dei grandi testi filosofici e delle opere di Erasmo: saranno la stampa e i libri ad incidere il suo destino e segnarne amori, sofferenze nonchè il ruolo nella grande rivoluzione religiosa di inizio Cinquecento. Al contrario Hans incontrerà la guerra, la forza fisica, la brutalità e crudeltà del mondo delle armi: la sua nuova famiglia sarà un gruppo pantuagrueliano di Lanzichenecchi, guerrieri per soldo al miglior offerente. Armato della sola compagnia di una balestra, col soprannome di Colposicuro, il ragazzo sperimenterà tutte le avventure di chi vive nella e della violenza e la ferocia sarà il leitmotiv di tutto il suo destino: tradimenti, fame, guerre fino alle battaglie religiose. Solo la Storia, "un Destino Ultimo" sarà in grado di riunire queste due vite parallele.

Quando si scrive un romanzo storico, ci si preoccupa di come confrontarsi con le notizie stilizzate, a lungo divulgate dalla grande manualistica storica e dai documenti, e al contempo si insinua il problema dell'originalità, del restituire la quotidianità più disparata degli uomini quali sono realmente esistiti. In questo romanzo l’autore ci riesce ragionando proprio sul concetto di destino: che è origine e insieme esito del percorso dei singoli. Con l’Inquisizione, i Lanzichenecchi, la Rivoluzione della Stampa e la Riforma Protestante, è la Grande Storia la vera protagonista della vicenda, è lei il filo rosso, il terreno su cui tutti gli uomini sono costretti a vivere, e dunque l’unico legame capace di amalgamare le persone anche più estranee, di congiungerle insomma in quel destino ultimo

Capace di allineare le più note tappe della Storia, senza però tralasciare nessuno degli elementi tipici del romanzo d’avventura, e cioè amore sfide pericoli e protagonisti da qualità eccezionali, il romanzo L’ultimo destino di Angelino Riggio è un racconto avvincente e coinvolgente, di gusto tolstojano e memoria dostoevskijana, con un pizzico di Ariosto e dei suoi cavalieri erranti, catapultati però in un mondo che ha abbandonato i confini netti tra bene e male: nella modernità ogni cosa si muove nella stessa ombra sospesa de Il mestiere delle armi, compresa anche la vita di due bambini dalla facciapulita di questo romanzo che sognavano solo di poter vivere sempre in una sempiterna e innocente felicità.

«Il primo a essere versato fu il sangue del drago. «Ammazzalo!» urlò la dama impaurita dal cavaliere. Ma il drago era solo un geco, una salamanquesa, che spiccava sul muro bianco della stanza. E il cavaliere era un bimbo che non sapeva che fare. A lui quei piccoli draghi grigi erano sempre piaciuti: lo divertiva osservarli quando si appostavano vicino a qualche luce e aspettavano immobili lunghi minuti prima di scattare a divorare zanzare, falene e altri insetti così minuscoli che lui non riusciva a vederli»

(A. Riggio, L'ultimo destino, Pintore, Torino, 2014)

venerdì 6 marzo 2015

"Ci rivediamo lassù" di Pierre Lemaitre



TitoloCi rivediamo lassù
Autore: Pierre Lemaitre
Editore: Mondadori, 2014
Titolo originale: Au revoir là-haut
Traduzione a cura di: Stefania Ricciardi






Il 2 novembre del 1918, a dieci giorni dalla firma dell’Armistizio, quando nelle file francesi e in quelle tedesche è ormai chiaro chi sarà il vincitore della Guerra ed è solo una questione di tempo l’imminente resa dei crucchi, quando insomma l’incubo di trincee mitragliatrici granate e fango sta per finire, il tenente d’Aulney-Pradelle incalza i suoi uomini ad un’ultima grande eroica e valorosa azione prima di tutti i ‘cessate il fuoco’. Così, a pochissimi giorni da un felice e desiderato rientro a casa, a pochissimo dall'imminente e bramato lieto fine, si apre Ci rivediamo lassù di Pierre Lemaitre ed inizia la grande avventura dell’umile ex-impiegato di banca Albert Maillard, dell’eccentrico artista Éduard Pericoult e del loro sodalizio nel realizzare una truffa di portata nazionale come vendetta e personale risarcimento ai torti subiti in guerra.

Sulla scia dei grandi romanzi di appendice di Alexandre Dumas e di Victor Hugo e dei successivi romanzi ‘truffaldini’ di Gaston Leroux, Pierre Lemaitre ci conduce in una vera e propria peripezia nella e della Storia. Una profonda, ed insieme irriverente, pittura di un’epoca che troppo di rado in letteratura si spoglia dei toni tipici degli episodi militari o dei resoconti dei traumi riportati dai reduci. Con curata sapienza, Ci rivediamo lassù evita di rappresentare il trito e ritrito materiale dell’esperienza al fronte e propone invece la storia di una rivincita paradossale per riflettere sui limiti della morale e della giustizia nella comunità francese del primissimo dopoguerra. Il lettore sprofonda in una Francia di imbrogli e intrighi senza tempo i cui lineamenti richiamano alla mente le amministrazioni pubbliche odierne evocate di continuo sulle pagine della cronaca di tutti i giorni: con appalti truccati, mazzette, truffe ai danni dello stato e appropriazioni indebite. Allo stesso tempo però il grigiore della critica sociale, da cui l’autore non si esime per veridicità storica, viene controbilanciata dall'eccitante racconto della truffa imbastita dai due rocamboleschi protagonisti. Se nei romanzi poco importa dell’happy ending ciò vale ancora di più per questo libro che si sostenta e trae forza dal coinvolgimento o rapimento del lettore, incalzato dall'accurato gioco di suspense ed incapace di riemergere dall'apnea prima di aver raggiunto l’ultima pagina dell'insolita vicenda.

Libri di storie vere, libri che hanno la giusta coerenza, unità e misura stilistica e al contempo riescono a narrare una storia originale, nuova e particolarmente accattivante appaiono ogni giorno più rari. Fantasia e storia, acume e realismo sono invece le qualità preponderanti in questo libro. Ma il valore aggiunto è decisamente la lingua, la Voce di questo narratore che abbandona quelle trasposizioni su carta delle sceneggiature cinematografiche per riprendere l’uso dei periodi, dell’indiretto libero, delle metafore, delle riflessioni linguistiche. Insomma si avverte un connubio tra attenzione alla parola, freschezza della trama, sfida tematica e qualità espressiva, tale da rendere questo libro capace non solo di parlare alla nostra pancia divertendoci, ma anche alla testa, lasciando dietro alle emozioni più primitive una visione non banale di un’epoca storica troppo spesso appiattita dai libri scolastici e dalla letteratura tradizionale. 

«Chi pensava che quella guerra sarebbe finita presto era già morto da molto tempo. In guerra, per l’appunto. Così, in ottobre, Albert accolse con un certo scetticismo le voci di un armistizio imminente. Non diede loro maggior credito di quante ne avesse dato alla propaganda iniziale secondo cui, per esempio, le pallottole crucche erano così molli da spiaccicarsi sulle uniformi come pere troppo mature, facendo crepare dal ridere i reggimenti francesi. In quattro anni, Albert ne aveva vista una marea di gente morta dal ridere beccandosi una pallottola tedesca»
 (P. Lemaitre, Ci rivediamo lassù, Mondadori, Milano, 2014) 

venerdì 4 ottobre 2013

"Ogni mattina a Jenin" di Susan Abulhawa


Titolo: Ogni mattina a Jenin
Autrice: Susan Abulhawa
Editore: Feltrinelli, 2011
Titolo originale: Mornings in Jenin
Traduzione a cura di: Silvia Roti Sperti






  Ogni mattina a Jenin, nuova edizione di Nel segno di David, è un libro che non lascia indifferenti. È un libro emozionante ed appassionante. Un libro che indigna e che scuote le coscienze. Un romanzo che con la sensibilità trasudata da ogni pagina si oppone all'inumanità assuefatta del mondo. La storia di Amal, erede mancata del podere paterno nel villaggio palestinese di 'Ain Hob, ora abitazione di ebrei francesi vittime dell’olocausto, è il grido di «un popolo che nome non ha». Il suo villaggio e la terra che i suoi avi hanno coltivato per più di cinque generazioni diventano il risarcimento degli orrori commessi da altri e costringono la sua famiglia, colpevole di abitare quella specifica porzione di territorio, alla vita precaria del campo profughi di Jenin. Così l’autrice Susan Abulhawa con drammatica semplicità, lontana dal patetismo o dal semplice j’accuse, percorre le vicende di Amal in sessant’anni di conflitto arabo-palestinese, seguendo il fil rouge dei sentimenti: l’amore del nonno per i suoi alberi da frutta, l’amore della madre beduina per la sua famiglia, l’amore del padre per i libri, l’amore dello zio per i cavalli, quello di suo fratello Yussef per la moglie, quello di lei, Amal, per la sua amica Huda, per suo marito Majid ed infine per sua figlia Sara. È la narrazione di un microcosmo domestico, i cui membri si riconoscono per via emotiva, che si confronta con il mare dell’oggettività della Storia, cadenzata dagli anni nevralgici del '48, '67, '73, '82, '93, 2001. Quella di Amal Abulheja è una cronaca familiare, intimista ed emozionale in guerra costante con la legge del Numero propria della grande stampa giornalistica internazionale. 


  Paragonata al romanzo Il cacciatore di aquiloni, di K. Hosseini, l’opera della Abulhawa richiama alla mente tutte le tragedie consumatesi sotto una dominazione straniera, quando la Storia, facendo irruzione nelle vita di tutti i giorni, trasforma la quotidianità scontata in eccezionalità da raggiungere. Con l'aggiunta di un'aggravante. Quando Manzoni descriveva la sorte di Renzo e Lucia costretti a subire il torto di Don Rodrigo e dei suoi bravi o quando Primo Levi raccontava la propria prigionia nel campo di concentramento di Aushwitz, il lettore poteva comunque tirare un sospiro di sollievo nel finale. Al contrario il lettore incalzato dalla voce dolce di Amal divora pagine su pagine senza mai riuscire a raggiungere il tanto agognato lieto fine, capace di interrompere e riscattare la catena di sofferenza lunga sessant’anni. Così come svela lo stesso titolo, gli abitanti di Jenin sanno che ogni mattina è ripetizione delle mattine precedenti e delle mattine future. Per loro «si sta» sempre «come d’autunno/ sugli alberi le foglie». Il libro è allora prima di tutto un grido contro la continuità del dolore. Dei morti. Delle vittime. A Jenin i diritti si sono dimenticati e la sofferenza e l’offesa sono diventati la costante. 
«In un tempo lontano, prima che la storia marciasse per le colline e annientasse presente e futuro, prima che il vento afferrasse la terra per un angolo e le scrollasse via nome e identità, prima della nascita di Amal, un paesino a est di Haifa viveva tranquillo di fichi e olive, di frontiere aperte e di sole.»

  Ogni mattina a Jenin è un libro ossimoro. È semplice come una favola e drammatico come Se questo è un uomo. È un libro che abbatte i ruoli tradizionali della lettura con una riflessione sui veri colori dei sentimenti dei lettori e dei personaggi, intrecciati indissolubilmente dalla Storia. Ogni mattina a Jenin di Susan Abulhawa è un libro da leggere.

giovedì 3 ottobre 2013

"Camera con vista" di Edward Morgan Forster



Titolo: Camera con vista
Autore: Edward Morgan Forster
Editore: Mondadori, Oscar Classici, 2001
Titolo originale: A room with a view








  Camera con vista è una fiaba novecentesca, la storia dell’incontro tra il mondo della giovane inglese Lucy Honeychurch e quello del giovane anticonformista George Emerson. Il romanzo di E. M. Forster, scritto agli inizi del Novecento dopo un breve soggiorno dell’autore in Italia, si presenta in una forma tradizionale: ogni capitolo è provvisto di un titolo, la voce narrante è ancora una terza persona onnisciente e l’argomento è ancora di tipo romanzesco. Elemento portante della narrazione è il tono sarcastico con cui l’autore manifesta apertamente la sua presenza nel testo. L’ironia diventa lo strumento per portare avanti le vere istanze di Forster, il veicolo con cui mostrare le ipocrisie e la stagnazione morale della società edwardiana, incapace di affrontare e accettare l’aspetto più passionale dell’uomo. Così il libro si costruisce per opposizioni: innanzitutto opposizione di due paesaggi, la città di Firenze da un lato e il piccolo villaggio inglese di Summer Street nel Sussex inglese dall'altro, poi opposizione tra due gruppi di personaggi, gli Emerson e gli italiani contro i vari reverendi Eager, i Mr Beebe, i vari Cecil e le varie Miss Bartlett, ed infine opposizione temporale, tra un prima e un dopo, tra Medioevo e Rinascimento.


  Spunto del romanzo è la consuetudine del ‘Grand Tour’, la prassi da parte delle classi medio-alte di visitare i tesori archeologici ed artistici di città italiane come Firenze, Roma, Napoli, per completare al meglio la propria educazione. Lucy e la cugina Miss Bartlett a Firenze sono le nuove ospiti della pensione Bertolini, ma le loro camere sono sprovviste della desiderata vista sull'Arno, al contrario di quelle del signor Emerson e di suo figlio George che prontamente le offrono per uno scambio. Il ragionamento è sillogistico: poiché «alle donne piace guardare il panorama; agli uomini no», agli occhi dei due gentiluomini «è ovvio che dovrebbero averle loro, le camere con vista. Non c'è altro da aggiungere». Fin dall'inizio però la realizzazione delle proprie aspirazioni e dei propri desideri sembra doversi scontrare con l’autocontrollo e la rigida repressione delle convenienze sociali. Seppur con leggerezza Forster mette in luce la forbice tra il vero altruismo e la falsa etichetta, tra le vere emozioni e gli sbiaditi e indifferenti luoghi comuni. Nella narrazione una centralità evocatrice viene affidata alla descrizione paesaggistica. I moti dell'io interiore si riflettono nel paesaggio e allo stesso tempo l'ambientazione diventa lo specchio dell'animo: il viaggio di Lucy in Italia, attraverso la stereotipata intensità dei suoi colori, è un viaggio introspettivo, di maturazione e formazione, un viaggio contro la confusione creata dal mondo, alla ricerca della vera se stessa. Un viaggio contro il buio, metafora della menzogna della confusione morale del pensiero gretto e stagnante e dunque pericolo in cui si può costantemente inciampare, verso una luce simbolo supremo di Verità.


  Camera con vista è un Bildungsroman, una lotta «per qualcosa di più che non l’Amore o il Piacere»: è la lotta per la vera conoscenza di se stessi.
La vita è bellissima, ma difficile. “La vita” ha scritto un mio amico “è un concerto di violino suonato in pubblico, e si impara a conoscere lo strumento solo suonando.” Mi sembra una buona definizione. L’uomo deve imparare a usare le proprie capacità man mano che la vita procede… specialmente la capacità di amare.
(E. M. Forster, Camera con vista, Milano, Mondadori, 2001.)


Un inizio

L'inizio è un momento unico, straordinario e irripetibile. Di seguito riporto le immortali parole di Italo Calvino, scrittore che più di tutti ha percepito la responsabilità mistica dell'incominciare, del lasciarsi racchiudere e rinchiudere in una identità precisa e connotante, da cui non si può non prescindere. Insomma la «libertà di cominciare» è una libertà «che si può usare una sola volta nella vita».


«Cominciare una conferenza, anzi un ciclo di conferenze, è un momento cruciale, come cominciare a scrivere un romanzo. E questo è il momento della scelta: ci è offerta la possibilità di dire tutto, in tutti i modi possibili; e dobbiamo arrivare a dire una cosa, in un modo particolare. 
Fino al momento precedente a quello in cui cominciamo a scrivere, abbiamo a nostra disposizione il mondo - quello che per ognuno di noi è il mondo, una somma di informazioni, di esperienze, di valori - il mondo dato in blocco, senza un prima né un poi, il mondo come memoria individuale e come potenzialità implicita; e noi vogliamo estrarre da questo mondo un discorso, un racconto, un sentimento: o forse più esattamente vogliamo compiere un'operazione che ci permetta di situarci in questo mondo.  
Ogni volta l'inizio è questo momento di distacco dalla molteplicità dei possibili: per il narratore l'allontanare da sé la molteplicità delle storie possibili, in modo da isolare e rendere raccontabile la singola storia che ha deciso di raccontare questa sera; per il poeta l'allontanare da sé un sentimento del mondo indifferenziato per isolare e connettere un accordo di parole in coincidenza con una sensazione o un pensiero».

I. Calvino, Lezioni americane, Milano, Oscar Mondadori, 1993, pp.123-124.